Sulla disoccupazione giovanile è normale sentire una discreta quantità di castronerie e la più gettonata è senza dubbio l’idea che un giovane su tre sia disoccupato… senza neanche definire chi siano i giovani. Un 25enne disoccupato, ad esempio è un giovane disoccupato o è un disoccupato e basta?
Sul versante opposto, invece, vige il più assoluto riserbo e di solito le peripezie occupazionli degli over 50 non giungono al grande pubblico. Così non è difficile imbattersi in qualche intemerata moralistica contro i disoccupati giovanni – choosy, impreparati – anche se in tempi recenti i disoccupati over 50 hanno superato per numero gli under 24…
—- Un minimo di metodo: occupati e inoccupati, tasso e numeri —-
Prima, però, partiamo dai fondamentali. Disoccupati e inoccupati non affatto sono la stessa cosa [1]:
Disoccupati (o in cerca di occupazione): comprendono le persone non occupate tra i 15 e i 74 anni che hanno effettuato almeno un’azione attiva di ricerca di lavoro nelle quattro settimane che precedono la settimana di riferimento e sono disponibili a lavorare (o ad avviare un’attività autonoma) entro le due settimane successive oppure inizieranno un lavoro entro tre mesi dalla settimana di riferimento e sarebbero disponibili a lavorare (o ad avviare un’attività autonoma) entro le due settimane successive, qualora fosse possibile anticipare l’inizio del lavoro.
Inattivi (o non forze di lavoro): comprendono le persone che non fanno parte delle forze di lavoro, ovvero quelle non classificate come occupate o disoccupate.
Gli inattivi sono le persone che non cercano lavoro siano essi pensionati, studenti o casalinghe. L’Istat, poi, categorizza come giovane solo il disoccupato che rientra nella classe d’età 15-24 anni e, pertanto, uno studente che non cerca un lavoro non è un disoccupato ma un inattivo. Allo stesso tempo sostenere che i disoccupati giovani siano tutti laureati è un’idiozia visto che all’Università si approda a 19 anni e se ne esce dopo i 24 anni salvo qualche eccezione.
Per quanto riguarda il tasso di disoccupazione si tratta di un rapporto tra i disoccupati e le corrispondenti forze di lavoro. Ma una percentuale è criptica se non si conoscono i numeri da cui è ricavata. I freddi numeri, invece, nascondono la realtà se non si conosce il rapporto fra i disoccupati e la forza lavoro: avere un milione di disoccupati non è la stessa cosa in un paese di 10 milioni di abitanti e un altro di 50 milioni. Come ovviare ai limiti di questi due indicatori? Facile, in una colonna metti il numero e in quella affianco il tasso di disoccupazione.
—– Gli anziani? Choosy e impreparati! —-
Usando le serie storiche dell’Istat possiamo dare un’occhiata all’evoluzione della disoccupazione in Italia considerando il numero di disoccupati piuttosto che il tasso di disoccupazione. I media, infatti, citano sempre le percentuali e mai i numeri. E chi siamo noi per non fornire un servizio mancante?
Partiamo dal numero dei disoccupati, dal 2004 al 2010:
E dal 2011 a oggi:
Che notiamo? Fino al 2007 il numero di disoccupati era in calo per tutte le classi d’età prese in esame. Nessuna sorpresa, l’andamento occupazionale segue, di solito, l’andamento del ciclo economico e in un’epoca di espansione economica i disoccupati calano.
Dal 2008, grazie alla crisi mondiale, i disoccupati aumentano fino alla fine del 2014 quando i valori cominciano, lentamente, a calare di nuovo. Con una sola eccezione: gli over 50. I disoccupati anziani a partire dal 2017 superano in numero i disoccupati giovani e la cosa mi pone un dubbio: se i giovani sono disoccupati perché choosy e impreperati, il discorso vale anche per gli anziani?
—- Il mercato del lavoro italiano —-
Ovviamente la risposta è negativa – che qui dentro non siamo moralisti – e la causa del fenomeno è da ricercare nella natura del mercato del lavoro italiano. Ma prima vorrei evidenziare che sia gli under 25 e sia gli over 50 sono solo una frazione del totale dei disoccupati e per mere ragioni numeriche – ci sono molte più persone nella classe d’età 25-49 anni – il grosso dei disoccupati è fra i professional e i senior e non fra gli entry level e i matusa.
Ma torniamo a noi. Ricordate quando in Italia si discuteva del fatto che il mercato del lavoro fosse segmentato e duale? Da una parte i garantiti, dall’altra i precari. I primi già inseriti nel mercato del lavoro e magari anzianotti, i secondi alle prime armi. Con l’arrivo della crisi un effetto perverso fu quello di scaricarne il costo sui precari dato che non rinnovare i contratti a qualche under 30 non ha lo stesso impatto sociale di licenziare i padri di famiglia, specie se i media erano pieni di emeriti imbecilli che spacciavano scemenze sui laureati choosy (che in Italia a 19 anni hai già un paio di lauree, pare). Se non fosse che la crisi economica è rimasta e alla lunga parecchie anziende hanno chiuso e, in questo caso, non c’è tutela legislativa che tenga. Nel frattempo il macello sociale della disoccupazione giovanile ha portato a tutta una serie di misure volte a lenire il problema con il risultato che mentre il numero dei disoccupati giovani andava giù, quello degli anziani andava su, quasi triplicando in otto anni.
Altro fattore, poi, sono gli elementi distorsivi del mercato del lavoro come l’apprendistato e gli scatti d’anzianità che rendono complicato il reinserimento lavorativo dei più anziani anche perché l’esperienza è sì importante, ma non è mica cumulativa all’infinito. Arrivati a un certo punto il vantaggio dell’esperienza viene sopravvanzato da altri fattori (salari più bassi, forme contrattuali ridicole, incentivi, apprendistato) e tanti saluti al lavoro sei una persona di mezza età.
Se, infine, vediamo l’andamento degli occupati per natura lavorativa:
Dal 2011 a oggi notiamo un aumento del numero dei dipendenti ma più grazie ai precari che a quelli a tempo indeterminato. Le Partite IVA, invece, calano ma tutto sommato reggono la botta.
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