Charly's blog

L’ira degli spaghetto-liberisti: ma davvero le università italiane battono Harvard e Stanford?

Su il Corriere online potete trovare questo titolo [1]:

Università italiane meglio di Harvard e Stanford

Ed eccone il perché:

Ma Giuseppe De Nicolao, professore di Ingegneria a Pavia e collaboratore della rivista online Roars , ha provato ad aggiungere un altro indicatore ai dati raccolti a Shanghai, per stilare una classifica «dell’efficienza delle università che mettesse a confronto i risultati con la spesa», dividendo cioè i costi di gestione di ogni università per il numero di punti raggiunti. E a sorpresa – mettendo a confronto i primi venti atenei della classifica Arwu e i venti atenei italiani che vi sono classificati – a guidare questa «gara» sono quattro università italiane: la Scuola Normale di Pisa, l’Università di Ferrara, Trieste e Milano Bicocca, e nei primi dieci posti otto sono gli atenei italiani mentre a reggere il confronto dell’efficienza tra le grandi università ci sono solo Princeton e Oxford.
Non solo, secondo la classifica di Roars , poiché i punti che l’università conquista per i meriti dei suoi studenti e dei prof sono aggiuntivi, se si fondessero due o tre atenei i risultati sarebbero di molto migliori: «Ad esempio, se si unificassero, operazione priva di qualsiasi valore reale, la Statale, la Bicocca e il Politecnico, una futura università milanese potrebbe aspirare a entrare nei primi venti posti».

Lo spaghetti-liberista furioso

Un simile post ha scatenato, ovviamente l’irato sdegno di Thomas Manfredi, “statistico economico ed econometrico nel Direttorato di Politiche del Lavoro dell’OCSE”, sul sito Strade [2]:

È quindi con rammarico che leggiamo un articolo di Roars, scritto da Giuseppe De Nicolao, professore di ingegneria all’Univesità di Pavia, che cerca di avvalorare la tesi secondo la quale i nostri atenei non se la passano così male, come le molte classifiche internazionali sulla qualità delle Università tenderebbero a far credere. L’articolo prende spunto dalla classifica di Shanghai, che vede le nostre Università distanti dalle eccellenze internazionali. La prima classificata italiana, La Sapienza, è oltre la 150ma posizione. La tesi dell’autore è che, una volta tenuto in considerazione un “indicatore di spesa per punto di classifica”, sedici tra i primi venti atenei mondiali in questa contro classifica sarebbero italiani!

L’errore risiede nella mancata conoscenza da parte degli ingegneri della vera verità economica:

L’indicatore utilizzato tradisce una insufficiente conoscenza del concetto di efficienza economica, che spesso abbaglia bravissimi e stimatissimi ingegneri. Trattare i punti classifica come fossero un output, e relazionarli ai costi monetari, come fossero input, è concettualmente sbagliato. L’output di una università non sono i punti di una classifica, ma la conoscenza trasmessa agli studenti, che si traduce in salari futuri in grado di giustificare l’investimento intrapreso. Gli input tecnici sono principalmente la competenza dei professori universitari, ma anche il capitale fisico – aule strumenti tecnici etc – coordinati tramite l’organizzazione manageriale delle Università. L’articolo di Roars, definendo in modo incorretto un indicatore di efficienza semi tecnica, dove il “semi” nasconde la confusione intrinseca di usare punteggi e input monetari in modo pedissequo, suggerisce che solo spendendo di più le nostre Università potranno aumentare il loro “prodotto”. Esse soffrirebbero perciò solo di insufficienza di fondi di finanziamento pubblico, non di problemi organizzativi o di qualità dell’insegnamento.

Aggiungendo, poi, che «È certamente vero che la spesa universitaria sia bassa in Italia nel confronto internazionale, sebbene una volta corretto per il basso numero di iscritti le cose siano in parte diverse di quanto appaiano a prima vista», ma rimane «esilarante leggere che sedici delle prime venti università mondiali – in termini di efficienza – sarebbero tutte italiane». Senza dimenticare che viviamo «in un paese in cui il return to higher education è così basso, in cui la produttività del lavoro è stagnante da 20 anni, in cui la meritocrazia è assente». Il che è una cosa bellissima se non fosse che Manfredi non ha letto o non ha capito l’articolo di Roars.

Cosa ha scritto Roars, per davvero

Ecco l’articolo di De Nicolao, docente universitario presso Department of Computer and System Science a Pavia [3]:

Eppure, l’unica notizia che “buca” è l’assenza dell’Italia dall’Olimpo delle prime 150 università, fornendo una ghiotta occasione per denunciare inefficienza e irrilevanza dell’università italiana e dei suoi docenti. Tutti questi discorsi, che appaiono indiscutibili all’uomo della strada, trascurano però un aspetto essenziale, ovvero quello delle risorse destinate all’università e alla ricerca. Quasi nessuno sa che che la spesa pubblica italiana destinata all’università è – in rapporto al PIL – la penultima in Europa e tra le ultime dell’OCSE. Non è facile correggere questa distorsione prospettica, anche perché nessuna delle classifiche internazionali degli atenei introduce delle normalizzazioni per tener conto dei diversi livelli di spesa. Ecco perché abbiamo pensato di proporre ai nostri lettori un rudimentale “esercizio pedagogico” che, senza pretese di scientificità, aiuti anche i non esperti a mettere nella giusta prospettiva i risultati delle classifiche internazionali.

Presumo che non  ci voglia un Phd in economica per leggere la frase “abbiamo pensato di proporre ai nostri lettori un rudimentale «esercizio pedagogico” che, senza pretese di scientificità, aiuti anche i non esperti a mettere nella giusta prospettiva i risultati delle classifiche internazionali». E se non bastasse ecco un’altra aggiunta: «Il nostro esercizio pedagogico non ha pretese di scientificità (e come potrebbe, visto che fa uso dei punteggi di una classifica pseudoscientifica?)». Concetto ribadito ancora e ancora: « Come già detto, questo esercizio pedagogico, una specie di reductio ad absurdum, non ha pretese di scientificità, perché poggia sui punteggi pseudoscientifici della classifica ARWU» Ma è tanto difficile leggere e comprendere l’italiano scritto?

Ma andiamo avanti con la metodologia della goliardica pseudo classifica:

Nel caso degli atenei, il carburante sono i fondi a disposizione di anno in anno. Con un po’ di pazienza, abbiamo rintracciato e sfogliato i bilanci di questi 40 atenei per recuperare il valore delle operating expensesannue. Per ogni ateneo, abbiamo considerato il bilancio più recente disponibile sul web e, nei limiti del possibile, abbiamo ricavato un valore rappresentativo delle operating expenses annue. Siamo lontani dal poter garantire un’accuratezza assoluta, ma, come vedremo, gli esiti di questo esercizio pedagogico saranno talmente chiari da poter sopportare un discreto margine di errore.

Per farci un’idea di quanti litri servono per percorrere 100 km, abbiamo calcolato

Expense per ARWU point = Operating Expenses / Total ARWU score

In altre parole, abbiamo calcolato quanti milioni di dollari occorrono a ciascun ateneo per conquistarsi un punto ARWU. Tra due atenei, il più virtuoso sarà quello che, a parità di punti ARWU, spende meno milioni di dollari o che, a parità di milioni di dollari spesi, conquista un numero maggiore di punti ARWU. Insomma, un ateneo sarà tanto più efficiente quanto più sarà bassa la sua  “Spesa per punto ARWU”. Il migliore non sarà più quello in testa alla classifica generale, ma quello che ha fatto l’uso più efficiente dei soldi spesi. Un criterio di efficienza pienamente allineato alle esigenze di spending review.

Il risultato è il ribaltamento della classifica, ma soltanto a prima vista. La morale è un’altra:

Ciò nonostante, offre degli insegnamenti a chi si accanisce a credere alle classifiche degli atenei:

  1. è sufficiente tener conto di un criterio importante che è stato sempre ignorato (le spese) per ribaltare le classifiche;

  2. non si possono confrontare gli atenei italiani con le “World Class Universities”, senza mettere a confronto le risorse finanziarie;

  3. persino una classifica pseudoscientifica come la ARWU più che testimoniare il ritardo e l’irrilevanza degli atenei italiani, finisce per confermare quello che dicono le statistiche bibliometriche, ovvero che il sistema universitario italiano, pur sottofinanziato, nel suo complesso non è meno efficiente di quelli delle maggiori nazioni straniere.

Concetto ribadito da Franceso Sylos Labini nei commenti:

Sylos Labini, università

D’altronde l’articolo di Roars non ha mai definito le università italiane « isole paradisiache di efficienza, che solo uno stato miope non finanzia adeguatamente» e sembra quantomeno azzardato mettere in relazione la meritocrazia, vuota parola, e il calo della produttività del lavoro con l’università. A meno che non esista l’entanglement scolastico: una laura nella materia x nella regione m influenza il lavoratore diplomato y nella regione n. Perché? Boh.

Giudico, ergo sum: gli spaghetti-liberisti

Non se la prenda Manfredi, ma è in buona compagnia. Sempre su strade si può trovare l’ineffabile Fabio Scacciavillanni che quando non è impegnato a definire parassiti i pensionati

Scacciavillani, pensionati parassiti

O insultare chi passa:

Scacciavillani, maleducato

Si sente in diritto di dire la sua sulla scuola  [4]: « Il ciarpame ideologico che costituiva l’humus da cui germogliò il 68 sublimò il suo momento più infame nello slogan la “Fantasia al Potere” con cui si sdoganavano l’ignoranza e l’irresponsabilità. Quel contagio demagogico che infervorò turbe minoritarie di lunatici esaltati – ma mediaticamente riveriti e quindi influenti – produsse danni irreparabili soprattutto sul sistema educativo italiano, dalle materne all’Università». E che

Questo disastro viene certificato puntualmente dalle comparazioni internazionali. Ad esempio lo  Skills Outlook 2013 dell’Ocse fornisce dati sulla capacità degli adulti di comprendere un testo scritto, di far di conto e di risolvere un problema. Più in generale valuta anche le capacità come la cooperazione, la comunicazione e l’organizzazione del proprio tempo. Detto senza pietose perifrasi questo studio di oltre 400 pagine dipinge un quadro tragico per l’Italia. Si inizia dalla percentuale di popolazione con educazione terziaria (Fig. b pag. 57). Nella fascia di età 55-65 l’Italia è ultima assoluta (staccata anche da paesi tipo Polonia o Cipro) con una percentuale al di sotto del 10 percento, mentre nella fascia 25-35 è penultima appena sopra il 20%, un’incollatura sopra l’Austria. Insomma l’80 per cento dei giovani non ha un titolo universitario. Si può immaginare qualcosa di ancora più deprimente? Basta andare alla Fig. c nella pagina successiva. La percentuale di popolazione senza diploma di scuola superiore in Italia è la peggiore in assoluto: nella fascia di età 25-35 il 30 percento, mentre nella fascia 55-65 anni si supera il 70 percento. In Germania o negli USA, tanto per fare un paragone con il top della classifica, non ha un diploma solo il 10 percento del campione in entrambe le classi di età. Tra l’altro va aggiunto che facendo i confronti, un laureato italiano ha un livello di competenze paragonabile a quelli di un diplomato giapponese. In sostanza l’Italia sforna pochi laureati e di bassa qualità.

Ricapitoliamo: il ’68 ha distrutto la scuola anche se i peggiori in assoluto sono gli over 55 che il ’68 l’hanno visto solo negli ultimi anni delle superiori… per chi ci è andato. Infatti il nostro eroe aggiunge con nonchalance che l’Italia presenta anche bassi livelli d’istruzione e si dimentica di dire che in quelle classifiche a conseguire i risultati migliori sono gli studenti della coorte d’età 15-24. Non essendo uno spaghetti-liberista io darei un maggior peso allo scarso livello di alfabetizzazione scolastica dato che, penzaunpote, un laureato magari legge e scrive meglio di un over 55 con la licenza elementare. Ma nulla di nuovo, sappiamo già che il livello di alfabetizzazione scolastico conta, che il punto debole della società italiana sono i matusa pre ’68, mentre dubito fortemente che il nostro sia a conoscenza del fatto che la storiella della crisi della scuola italiana sia vecchia come la scuola italiana stessa e che la storiella degli studenti che non studiano è vecchia quanto Platone. E dubito, ancora una volta, che il nostro sia abbastanza smaliziato da rendersi conto che gli “studenti italiani” non esistono.

Ovviamente non pago il nostro ha ben pensato di citare su Twitter questo articolo del bocconiano Stefano Feltri la cui tesi è [5]:

E, pietra dello scandalo, secondo uno studio del think tank CEPS, fatto 100 il valore medio attualizzato di una laurea a cinque anni dalla fine degli studi, per un uomo laureato in Legge o in Economia o Scienza politiche è 273, ben 398 se in Medicina. Soltanto 55 se studia Fisica o Informatica (le imprese italiane hanno adattato la propria struttura su lavoratori economici e poco qualificati). Se studia Lettere o Storia, il valore è pesantemente negativo, -265. Numeri che considerano anche la difficoltà stimata dei corsi in termini di ore di studio in classe e a casa. Tradotto: in Italia, studiare una facoltà difficile come Informatica paga relativamente poco, Lettere richiede molto meno impegno, quindi ha un costo più basso, ma anche risultati molto deludenti. Risultati anche da prendere come una base di ricerca, perché costruiti su poche decine di osservazioni, ma ci danno comunque spunti di riflessione.

Peccato che le cose non siano proprio così [6]:

1) nella formulazione originaria, l’articolo parlava del valore attualizzato di una laurea in Italia a partire dalla fine degli studi: “per un uomo è 273.000 euro se ha una laurea in Legge o Economia, 398.000 se in Medicina. Soltanto 55.000 se studia Fisica o Informatica […]. Se studia Lettere o Storia, il valore è pesantemente negativo, -265.000 euro”. Poche ore dopo però il giornalista, ammonito da una delle autrici dell’articolo, è costretto a rettificare; lungi dal riferisi alle migliaia di euro, i numeri riportati da Feltri si riferivano in realtà a valori comparativi. I ricercatori fissavano infatti a “100” il vantaggio stipendiale del possesso di una laurea secondo una ricerca dell’OCSE, ma cercavano di mostrare come sotto a questo guadagno medio si celassero in realtà cifre molto maggiori (398 per medicina, vale a dire: quasi il quadruplo) e molto minori (-265 per le materie umanistiche). Per giustificare dell’errore, Feltri riferisce che “le tabelle riassuntive dello studio sono un po’ scarse nella legenda”. Peccato che il ragionamento dei ricercatori sia espresso in modo limpido nello studio (pag. 8). Ma Feltri l’ha letto?

Il problema è tutto lì:

Il cuore dell’articolo di Feltri consiste nella discussione di uno studio di tre economisti del CEPS – Centre for European Policy Studies. La domanda da cui partono i ricercatori è la seguente: come mai, secondo la letteratura esistente, ci sono pochi giovani che si laureano nelle materie STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica), nonostante queste materie offrano migliori prospettive stipendiali? La risposta a questo ‘paradosso’, semplificandola, è che il vantaggio delle materie “STEM” non è davvero così grosso: nonostante gli alti ricavi, le materie STEM sono molto onerose perché per es. richiedono più ore di studio. Piuttosto, se lo scopo è massimizzare i guadagni (come viene assunto molto spesso dall’economia neoclassica), meglio studiare medicina o scienze sociali. In tutto questo, le materie umanistiche si caratterizzerebbero per avere bassi costi ma anche bassi ricavi

Incredibile, vero? Certo, le ricerche vanno lette.. e capite [7]. Ma se nasci spaghetto non puoi che morire liberista. O se preferite:

MEDICE, CURA TE IPSUM

Approfondimenti:

_ i ranking universitari, non valgono nulla: http://www.lamsade.dauphine.fr/~bouyssou/BillautBouyssouVinckeScientometrics.pdf

_ le facoltà “umanistiche”: http://www.valigiablu.it/ma-davvero-le-facolta-umanistiche-sono-un-pessimo-investimento/.

_ fumo e università: http://www.formiche.net/2015/08/20/chi-bistratta-chi-luniversita-italiana/.

_ Test PISA: http://www.roars.it/online/fondamentalmente-errati-i-dubbi-della-bbc-sui-test-ocse-pisa/.

[1] Cfr. http://www.corriere.it/scuola/universita/15_agosto_18/controclassifica-dove-l-italia-supera-harvard-stanford-7f7e071e-459c-11e5-a532-fb287b18ec46.shtml.

[2] Cfr. http://stradeonline.it/innovazione-e-mercato/1334-l-universita-italiana-e-gli-indicatori-fantozziani.

[3] Cfr. http://www.roars.it/online/classifica-arwu-14-universita-italiane-meglio-di-harvard-e-stanford-come-value-for-money/comment-page-2/#comments.

[4] Cfr. http://stradeonline.it/scienza-e-razionalita/394-scuola-la-rivincita-della-realta-sulla-fantasia-al-potere.

[5] Cfr. http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/08/17/universita-gli-studi-belli-ma-inutili-e-lascensore-sociale-bloccato/1963721/.

[6] Cfr. http://www.uninews24.it/italia/9532-feltri-fatto-quotidiano-errore-iscriversi-alle-facolt%E0-umanistiche.html.

[7] Cfr. http://www.ceps.eu/system/files/WD%20No%20411%20Useless%20Degrees.pdf.

3 commenti su “L’ira degli spaghetto-liberisti: ma davvero le università italiane battono Harvard e Stanford?

  1. Marco Antoniotti
    20 agosto 2015

    Molto belle le citazioni del parastatale 3:)

  2. Pingback: Una visione d'insieme sulle università italiane (e qualche dato)

I commenti sono chiusi.

Informazione

Questa voce è stata pubblicata il 20 agosto 2015 da in Uncategorized con tag , , , , .